Il principio della presunzione di non colpevolezza dispiega, nel suo risvolto trattamentale, un’efficacia performante sulla regolamentazione dei rapporti tra tempo e custodia cautelare. In diretta attuazione del paradigma costituzionale, il legislatore ha, dunque, costruito un sistema che rinviene nella previsione di invalicabili limiti cronologici alla detenzione ante iudicatum (art. 303 c.p.p.) e nel principio di compatibilità tra diversi stati detentivi (art. 297 comma 5 c.p.p.) i suoi pilastri fondamentali. Un assetto così congegnato, se appare rispettoso dei valori che si addensano al suo interno laddove lo si osservi staticamente, al contrario, manifesta nella prospettiva dinamica la presenza di un pernicioso elemento disfunzionale. Il nucleo della questione risiede nelle possibilità di abuso che il principio di autonoma decorrenza dei titoli custodiali schiude agli organi titolari del potere cautelare: questi, infatti, facendo perno sul nesso intercorrente tra determinazione del dies a quo dei termini di durata di ciascuna misura ed esecuzione della stessa, possono segmentare artificiosamente gli addebiti al solo scopo di prolungare indebitamente la durata complessiva della custodia cautelare e, così, di influenzare in peius la data di effettiva rimessione in libertà del soggetto. Conosciuta nell’ambito degli studi processual-penalistici con l’icastica locuzione di “contestazioni a catena”, la problematica ora descritta trova regolamentazione nell’art. 297 comma 3 c.p.p il quale, però, dà vita ad una disciplina particolarmente articolata e complessa la cui disamina, nelle sue diverse sfaccettature e nei suoi molteplici profili problematici, costituisce lo scopo del presente lavoro.