Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione è stato introdotto dalla giurisprudenza e si è successivamente sviluppato in ambito penale in ragione di un’esigenza precisa: impedire, a fronte di un ampliamento del motivo di ricorso attinente ai vizi della motivazione, che la Suprema Corte fosse costretta, per poter decidere, ad una rilettura di tutti gli atti processuali.
Storicamente inteso come la necessità che il ricorso recasse in sé (mediante trascrizione) o con sé (mediante allegazione) gli atti in riferimento ai quali venivano formulate le censure alla sentenza impugnata, il principio è stato interpretato così variamente dalla giurisprudenza da rendere necessari dapprima l’adozione di un protocollo tra la Suprema Corte di cassazione ed il Consiglio Nazionale Forense e, successivamente, addirittura un intervento normativo: ciò al fine di individuare coordinate certe entro le quali l’interprete potesse muoversi.
Il presente studio, dopo aver inquadrato le ragioni che hanno portato alla nascita del canone di autosufficienza del ricorso nel processo civile e all’estensione della sua applicazione nel processo penale, cerca di delineare l’evoluzione avuta dal principio negli ultimi decenni, per poi suggerire, attraverso riflessioni di natura sistematica, quale dimensione possa essere legittimamente riconosciuta all’“autosufficienza” o alla luce dell’attuale contesto normativo.