Quando i testimoni siano stati intimiditi o corrotti e perciò si sottraggano all’esame dibattimentale o rendano una deposizione diversa, è consentito impiegare come prova d’accusa le loro precedenti dichiarazioni, raccolte dagli inquirenti nel segreto dell’indagine preliminare? La nostra Costituzione (art. 111 co. 5) risponde sì, ma a patto che sia davvero «provata» una «condotta illecita» (violenze, minacce, offerte di denaro). L’autore esplora le ragioni che hanno condotto a ridimensionare questo requisito, nel codice (art. 500 c.p.p.) e nella pratica dei tribunali. Nel farlo, ripercorre le vicende degli ultimi vent’anni e le resistenze che ha incontrato, in Italia, la piena affermazione del contraddittorio in ambito penale; snida lacune e stratificazioni della nevralgica, ma troppo spesso rimaneggiata, disciplina del “trasbordo” di atti, dalla fase preliminare al dibattimento. Si confronta – infine – con una tendenza frequente e assai problematica: quella in base alla quale si suppone che, quando la prova verta su fatti diversi da quelli che rappresentano l’oggetto dell’accusa (i c.d. fatti processuali, come appunto l’intimidazione dei testimoni), li si possa accertare con maggiore superficialità e minori garanzie. Ci si dimentica così che, spesso, tali fatti ed il loro accertamento rivestono comunque un’importanza decisiva, in modo diretto o indiretto, per le sorti dell’imputato, dei suoi diritti e della sua libertà.