Le intercettazioni e i controlli preventivi sulle comunicazioni rappresentano uno degli istituti più ermetici nel panorama giuridico attuale. Sono strumenti magmatici e multiformi, i cui connotati essenziali vengono di volta in volta tratteggiati dalla prassi investigativa che illumina le “zone grigie” lasciate da una lacunosa disciplina normativa e dall’assenza di interventi “chiarificatori” della dottrina e della giurisprudenza.
Consistono in operazioni di natura tecnica eseguite dalle Forze di polizie e dai Servizi di intelligence al fine di raccogliere informazioni utili per la prevenzione di gravi reati e non per l’acquisizione di elementi funzionali all’accertamento della responsabilità per singoli fatti delittuosi.
Rebus sic stantibus, la scelta del giurista di non addentrarsi negli oscuri meandri delle captazioni preventive sembrerebbe giustificata dalla totale estraneità delle stesse all’ambito procedimentale, sia in punto di esecuzione delle attività, sia in rapporto alla proiezione processuale dei risultati investigativi raggiunti ante delictum.
Ma, come spesso accade, la prassi non è sempre conforme a quanto teorizzato dal legislatore, determinando uno “scollamento” tra la realtà investigativa, che quotidianamente a quegli istituti dà corpo, e le norme chiamate a regolarla: allo stato dell’arte i risultati delle intercettazioni preventive trovano impiego processuale “indiretto”, determinando una circolazione atipica di dati e di informazioni che si ripercuote sugli esiti procedimentali, sia investigativi che dibattimentali.
Alla fine, il giudizio si rileva assai severo, potendosi scorgere profili di criticità della disciplina non solo in rapporto alle regole processuali che impongono il divieto di trasposizione dei risultati raccolti ante delictum all’interno del processo penale puro, ma anche profili di incompatibilità con le libertà individuali “tradizionali” e diritti di vecchia e di nuova generazione.