Il fenomeno della concorrenza fiscale tra Stati è ormai noto da tempo, ma è soprattutto negli ultimi quindici anni che esso è cresciuto fino ad assumere una dimensione di particolare rilievo. A questo fenomeno non è rimasta estranea l’Europa, ove la tax competition si è sviluppata fondamentalmente attraverso due processi. Il primo è la «corsa al ribasso» delle aliquote dell’imposta sul reddito delle società. Basti pensare, a riguardo, che nel periodo 1995-2014, il tasso medio UE-28 di quelle aliquote è diminuito di 12 punti percentuali. Il secondo processo, che ha riguardato principalmente le multinazionali di più grosse dimensioni (e, prime fra esse, quelle del settore digitale) è noto come Base Erosion and Profit Shifitng (BEPS) ed ha determinato una sostanziale minimizzazione del carico fiscale di tali attori del mercato globale. Soprattutto in quest’ultimo caso il fenomeno viene definito come concorrenza fiscale “dannosa”, rilevando che esso ha una doppia incidenza negativa. Da un canto crea delle asimmetrie fiscali fra i diversi Stati membri che rallentano e minano il processo di integrazione europea, dall’altro comporta una notevole riduzione del gettito che gli stessi Stati possono percepire dalle imposte sul reddito societario. L’Europa ha cercato di fronteggiare questo fenomeno, ma sembra che fino ad oggi sia stata spinta principalmente dall’obiettivo di garantire il mercato unico, ravvisando nella concorrenza fiscale dannosa un fattore di distorsione che si frappone al raggiungimento di quell’obiettivo. Non sembra, invece, che sia stata adeguatamente valutata l’incidenza che la riduzione del gettito può avere sulla tutela dei diritti sociali all’interno dell’Unione. Il presente lavoro mira a studiare proprio quest’ultimo aspetto, cercando di comprendere se nell’Europa del dopo Lisbona vi possa essere spazio per la tutela diffusa di un livello almeno minimo di diritti sociali.