La delicatezza non confutabile della massimazione delle decisioni giudiziarie, le quali traggono le norme dagli enunciati, esige che non resti affidata all’approssimazione. La diffusione incontrollata di siti e banche dati informatiche, che intendono – e pretendono – di riportare (meritoriamente) e di massimare (a volte non con pari merito) i provvedimenti di ogni ordine e grado di giurisdizione, ha convinto alla più ampia diffusione delle tecniche di massimazione, già elaborate e sperimentate nell’ambito del massimario della Cassazione. Si è voluto, perciò, riassumere alcune regole-base, che presidiano qualsiasi tipo di massimazione, ufficiale o redazionale. Se lo “stile” della sentenza può essere espressione dell’estensore, tuttavia la correttezza istituzionale esige che il giudice ricerchi il più possibile uno stile obiettivo e piano, mai soggettivo o personalizzato, anche perché esso troverà riflesso nella massima: che, da parte sua, ancor più dovrà essere oggettiva, essenziale, perfetta.
“Piaccia o non piaccia, è con le massime di giurisprudenza che dobbiamo fare i conti”, scriveva, presago, Francesco Galgano, nel 1985, nella prima annata di Contratto e Impresa. Tanto più, direi, oggi: con la giurisprudenza al centro della scena giuridica, con la natura vincolante delle sue pronunce ormai entrata nella ‘grammatica normativa’ (il “nostro stare decisis”) e con le decisioni fondate sempre più meccanicamente sulle massime. Decisivo è, dunque, conoscere le tecniche per interpretare le sentenze, nonché le regole che presidiano l’estrazione delle massime. Insegnare a interpretare il testo-sentenza, oltre al testo-normativo e al testo-contratto: ecco una lacuna che le facoltà giuridiche devono colmare. A tal fine, la Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza-Università di Roma ha deciso di istituire un corso dedicato alle Tecniche di interpretazione delle sentenze.