È impugnabile innanzi al giudice tributario ogni atto funzionale a portare a conoscenza del contribuente una determinata pretesa tributaria rispetto alla quale sorga, ex art. 100 cod. proc. civ., l’interesse del contribuente medesimo alla tutela giurisdizionale.
Questa è la locuzione con cui la Cassazione, nella sua più recente, ma consolidata giurisprudenza, affronta il problema dell’individuazione degli atti impugnabili di cui all’art.
19, d.lgs. n. 546 del 1992.
Fino ad ora, la nozione di interesse a ricorrere ha consentito ai giudici di legittimità di rileggere il catalogo degli atti “tipici” per enucleare quelli “atipici” e ha altresì consentito di affiancare al modello di impugnazione “a pena di decadenza”, un differente
modello di impugnazione “in via facoltativa”.
Nonostante questa nozione di interesse a ricorrere sia diventata centrale nel ragionamento della Cassazione (e sembra anche del legislatore che vi ha fatto sostanzialmente ricorso per il risolvere il problema dell’impugnabilità degli atti invalidamente notifica-
ti, ma occasionalmente conosciuti dal contribuente), essa si esaurisce in poco più che in un rinvio di stile.
Non è così nel processo civile e, soprattutto, in quello amministrativo ove risulta analizzata e discussa tanto a livello teorico, quanto a livello pratico.
Da qui la volontà di indagare questi ambiti e comprendere se e come le conclusioni ivi raggiunte possano essere calate nel processo tributario, nonché capire quale spazio lasciare ad atti tipici, atti atipici, impugnazione a pena di decadenza e in via facoltativa.
L’obiettivo del lavoro è, in definitiva, quello di individuare un criterio che possa guidare l’interprete (il contribuente e, soprattutto, il giudice) nella selezione delle occasioni di accesso alla giustizia tributaria evitando, però, tanto vuoti di tutela, quanto duplicazioni delle stessa.