L’ordinamento amministrativo dello Stato italiano sin dall’Unità ha alimentato un dibattito molto intenso, che tuttora è vivo e continua a condizionare la vita politica del paese. Il nuovo Regno non fu organizzato con una legislazione frutto dalla convergenza delle proposte espresse dalle classi dirigenti dei diversi stati preunitari, ma con l’estensione della normativa sabauda a tutto il territorio nazionale.
Questo difetto originario ha condizionato la coesione del nuovo Stato. D’altra parte, la difficoltà di costruire un ordinamento amministrativo dotato della necessaria flessibilità per rispondere in modo tempestivo e appropriato ai bisogni delle comunità confluite nel Regno d’Italia ebbe pesanti riflessi sulla finanza locale. Le risorse di comuni e province non furono mai sufficienti a coprire le loro spese obbligatorie. I bilanci dei municipi dell’Italia liberale presentarono un grave squilibrio strutturale, che peggiorò nel corso degli anni. I suoi effetti sulle comunità amministrate furono rilevanti non solo dal punto di vista finanziario, ma anche e soprattutto sociale.
Nell’attuale fase di implementazione di nuovi strumenti legislativi per la finanza locale può essere molto utile ricordare l’esperienza dell’Italia liberale, che ha messo in evidenza due questioni fondamentali. La prima è la difficoltà di attuare politiche di trasferimento in periodi caratterizzati da gravi difficoltà del bilancio dello Stato.
La seconda è costituita dagli elevati costi politici e sociali di una visione autarchica delle finanze locali in un
contesto di forte dualismo economico.
Studiare quanto è accaduto in quegli anni di consolidamento dell’esperienza unitaria fa paventare il rischio che se il sistema perequativo non riuscirà a rispondere alle esigenze della complessa realtà del paese, il federalismo fiscale municipale potrà determinare un approfondimento delle già ampie divergenze in atto e un grave deterioramento della coesione sociale.