Il decreto – legge 22 settembre 2006 n. 259 recante «Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche», convertito con modificazioni nella legge 20 novembre 2006, n. 281, ha interpolato l’art. 240 del codice di rito penale, introducendo una disciplina peculiare in materia di documenti, supporti ed atti «concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti» e di «documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni».
Approvato sotto la spinta della necessità di bloccare immediatamente la diffusione dei dati e delle informazioni carpiti, violando sistemi informatici di enti pubblici o privati, che detengono dati personali anche sensibili, attraverso l’intromissione di estranei o, più spesso, il comportamento infedele di dipendenti che legittimamente possono accedere a tali informazioni , il provvedimento legislativo si contraddistingue per una terminologia inconsueta, che per la prima volta evoca la categoria della illegalità nella raccolta, formazione ed acquisizione dei risultati delle intercettazioni telefoniche e di quelle assimilate. Tale concetto, quindi, costituisce il nodo di più difficile soluzione ermeneutica non essendo agevole comprendere quale sia il materiale da annoverare fra quello indicato dall’art. 240, comma 2, del codice di procedura penale attesa la «sciatteria» linguistica che connota la definizione degli oggetti per i quali è prevista la sanzione della «inutilizzabilità rafforzata» dalla distruzione automatica ed immediata.
Dalle considerazioni preliminari finora formulate emerge il piano giustificativo del presente lavoro, che si propone di analizzare la tenuta di questa discussa normativa alla luce dei valori fondanti in materia processuale racchiusi nella nostra Carta primaria e dei principi di teoria generale del processo tradizionalmente riconosciuti.