«I 250 anni della prima pubblicazione del “libriccino fortunato” – questa è l’espressione che utilizzò Alessandro Manzoni, nipote di Cesare Beccaria, per parlare di Dei delitti e delle pene – rappresentano l’occasione per continuare a documentarne la vitalità e l’originalità. Facendo tesoro dell’insegnamento ricevuto dal suo autore, dopo 250 anni, Dei delitti e delle pene è (ancor più) utile e necessario. È utile perché ai princìpi introdotti da Beccaria si deve l’umanizzazione del diritto e della procedura penale, e con ciò la nascita del diritto penale moderno. È necessario perché la nostra società contemporanea, come ha avuto modo di argomentare Michel Foucault, “è molto più benthamiana che beccariana”. Ciò è evidente anche nella tendenza sempre più diffusa a “penalizzare” e “tecnologizzare” soggetti, comportamenti e processi sociali – senza nemmeno interrogarsi sulla funzione che dovrebbe svolgere il diritto e la scienza, senza valutare in maniera appropriata le potenzialità presenti in strategie giuridiche alternative e più umane. In questo lavoro rileggere Beccaria è probabilmente anche e soprattutto un modo per comprendere che cosa significhi riformare il sistema penale e per indagare fino a che punto ancora oggi ci sia bisogno di una riforma del sistema penale, rendere conto di quanto le questioni trattate da Beccaria continuino a rimanere centrali nel momento in cui ci si trova ad affrontare alcune cogenti problematiche di politica penale e di criminologia politica. Il presente lavoro si divide infatti in due parti: la prima ri-legge la dimensione politico-penale di Dei delitti e delle pene, mentre la seconda ri-legge Beccaria 250 anni dopo Dei delitti e delle pene»